Il 4 aprile 1968
veniva assassinato a Memphis Martin Luther King che aveva scelto la nonviolenza
di Gandhi come strumento di lotta per i diritti civili degli afroamericani e di
tutti gli oppressi e discriminati.
Forse non
facciamo fatica ad accogliere con piena convinzione il messaggio di Martin,
tuttavia abbiamo l’obbligo di chiederci se i suoi “sogni”, espressi nel celebre
discorso di Washington nel 1963 e in mille altre occasioni, siano stati davvero
raggiunti o c’è ancora tanta strada da percorrere per l’umanità.
Nel mio piccolo,
ho voluto dedicargli un romanzo perché anche i giovani non dimentichino un uomo
così straordinario e si rendano pienamente conto che tanto, troppo c’è ancora
da fare in questo mondo pieno di contraddizioni, violenza, dolore.
Avevo un sogno. Di certo non una fantasia
irragionevole o uno di quei voli impossibili che spesso il sonno ci regala,
facendoci librare leggeri nell’aria o sprofondare negli abissi oceanici. Io
l’ho vissuto come pensiero concreto, come obiettivo raggiungibile, come strada
da percorrere e da condividere verso una meta: la fratellanza nella pace.
Evidentemente per qualcuno era troppo, un’assurda
pretesa, una presuntuosa richiesta; per qualcun altro solo una bella e
irrealizzabile illusione.
E allora hanno pensato che esistesse solo
un modo per mettere a tacere la speranza che quel sogno aveva suscitato:
sopprimerlo insieme al suo ideatore. Lo avevo previsto, era nell’ordine delle
cose di quei tempi.
Non posso dare torto a chi pensa che non
ci sia nulla di più drammatico della morte; eppure sorrido ancora al pensiero
che qualcuno creda veramente che si possa uccidere un sogno.
Passano i secoli e tutto ciò che è
materiale, uomini e cose, è destinato a scomparire o a lasciare uno sbiadito
ricordo di sé. Infine, la polvere dell’oblio si stenderà come un pietoso velo
su ciò che è corruttibile e materiale.
Ma un sogno è insopprimibile, la speranza invincibile, e l’idea di pace
non potrà morire perché io so che ci sarà sempre qualcuno che continuerà a sognare.
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